Riportiamo l’intervista di Giorgia Marino per Ecofuturo.
Bioplastiche dagli scarti delle barbabietole, pelle vegetale per fare scarpe e divani dalla buccia delle mele, cosmetici e fitofarmaci da sfalci e residui di piante da frutto. La vecchia fattoria è ormai un’azienda multifunzionale che crea va- lore e reddito da ciò che un tempo era considerato ri uto. In un’ottica sempre più circolare e sostenibile. È la rivoluzione della bioeconomia e ne abbiamo parlato con uno dei suoi volti italiani: Sofia Mannelli, presidente dell’associazione Chimica Verde Bionet.
Partiamo dalle basi: cos’è la chimica verde?
«Secondo la formulazione classica che si rifà ai 12 principi di Paul Anastas, la chimica verde comprende tutti quei processi, industriali e non, che diminuiscono i danni all’ambiente. È quindi un concetto molto ampio. Per quanto riguarda l’attività dell’associazione Chimica Verde Bionet, nata nel 2006, abbiamo allora scelto di concentrarci sui processi a cicli corti di carbonio, cioè non provenienti da carbonio petrolchimico ma da carbonio di tipo rinnovabile, che aumentano la sostenibilità delle filiere. Partendo da materie prime di solito di origine vegetale, lavoriamo così su innumerevoli filiere».
Per esempio?
«Si va dai biocompositi e bioplastiche alla bioenergia, dai fitofarmaci alla cosmesi, dai mezzi tecnici per l’agricoltura no ai beni culturali. Sempre cercando di agire sull’intero ciclo produttivo, compresi il packaging e il fine vita del prodotto, che significa smaltimento, recupero, riciclo».
Si può dire che la chimica verde sia il motore della bioeconomia?
«È sicuramente uno dei suoi pilastri. La bioeconomia riguarda tutto il mondo dei materiali di origine biologica, mentre si parla nello speci co di bioeconomia circolare quando si chiude il cerchio reimmettendo gli scarti nel ciclo produttivo».
È la bioeconomia che sta dentro l’economia circolare o il contrario?
«Sono una l’appoggio dell’altra, due strategie che si devono necessariamente integrare per funzionare. L’economia circolare riguarda qualsiasi tipo di prodotto, dai metalli alla plastica ai materiali organici. Quando si parla di prodotti con origini biologiche, allora entra in gioco la bioeconomia».
Tornando alla chimica verde, parliamo dello stretto legame con il settore agricolo, che di solito si associa esclusivamente alla produzione alimentare. Una visione oggi superata dal concetto di “multifunzionalità”.
«La chimica verde entra nell’azienda agricola con almeno due ruoli. Innanzitutto aiuta a sfruttare al massimo i sottoprodotti delle coltivazioni, che diventano preziose materie prime seguendo appunto i principi della bioeconomia circolare. Ad esempio, con gli scarti delle mele per i succhi prodotti a Bolzano, si fabbricano milioni di metri quadri di Pellemela, un tessuto oggi esportato in tutto il mondo per fare divani, borse, scarpe. Ma l’esempio più comune di bioraffineria multifunzionale in azienda agricola è quello del biogas: gli scarti di produzione, integrati da piccole quantità di materia proveniente da colture dedicate, si mettono in un digestore anaerobico, e da lì si ottengono calore, energia, biocarburanti. Non solo: il residuo della produzione di biogas, cioè il digestato, ha un grandissimo valore come ammendante e fertilizzante se opportunamente trattato. Si realizza così un ciclo perfettamente chiuso.
Il secondo ruolo è quello di assistenza all’azienda agricola nella produzione di mezzi tecnici più sostenibili, come fertilizzanti e fumiganti naturali, per difendere le colture da agenti patogeni. Ormai le aziende agricole opportunamente dotate si possono fare da sole il fitofarmaco, con un risparmio enorme. E sono sicure di avere un prodotto che non inquina e non intossica gli operatori».
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