Il mercato delle fibre vegetali a livello mondiale riguarda oltre 6 milioni di tonnellate con netta prevalenza (circa 90%) del cotone, per un valore di oltre 7 miliardi di dollari (circa 95% il cotone). Come si può notare l’Europa è un importatore netto, con grandi volumi di materia prima acquistata e relativamente piccole quantità di prodotto finito esportato. Finora si è avuta convenienza ad importare non solo le fibre di colture non adatte ai nostri ambienti, ma anche quelle di colture che sono ben adattate alle condizioni pedoclimatiche europee.
Un cenno alla situazione italiana: nelle statistiche della FAO sono riportati 3.000 ettari di lino che in realtà non sono coltivati. Si possono ricordare circa 900 ettari di canapa e quasi 700 ettari di kenaf.
Quindi in pratica non siamo produttori di materia prima. Siamo però fortissimi importatori di fibre vegetali con oltre 300.000 t per un valore di quasi 450 milioni di dollari. Le esportazioni sono pari a circa il 3% in quantità e al 4,6% in valore rispetto alla materia prima importata. Anche in Italia è il cotone la fibra vegetale che monopolizza il mercato (95% in quantità e 90% in valore). La canapa, che rappresenta appena l’1-2‰ del commercio totale, è la fibra che recupera di più (27%) nel rapporto fra importazione ed esportazione.
In sintesi: della cinquantina di piante da fibra coltivate nel mondo, quelle di reale importanza sono poche e le colture sono dislocate prevalentemente in Paesi in via di sviluppo. L’Europa produce limitati quantitativi di cotone, al sud, e di lino, al nord; è un forte importatore di materia prima ed un modesto esportatore di prodotto finito. Attualmente si può riscontrare un notevole interesse in alcuni Paesi già membri dell’Unione (Francia, Olanda, Germania, Inghilterra ed anche Italia, Polonia, Ungheria, ecc.); si ha una domanda ampia e crescente di fibre di alta qualità per l’industria tessile e non tessile (Tuback, 2002) ma la produzione è fortemente determinata dagli aiuti della UE che guidano le motivazioni sia dei produttori agricoli che dell’industria (Alex et al., 2003).